mercoledì 30 maggio 2018

La Bolivia di Evo

L'abbiamo percorso migliaia di km in Bolivia, apprezzandone le incredibili bellezze naturali e gli immensi spazi. Abbiamo visitato villaggi poveri dalle case scrostate e cadenti, piccoli centri nati attorno a grandi bellezze naturali e cresciuti a dismisura senza alcuna regola urbanistica o architettonica, grandi città caotiche strangolate dal traffico e dallo smog, il tutto a configurare un Paese pieno di contraddizioni.

Nel nostro viaggio abbiamo incontrato su ogni muro libero, su ogni parete o cippo di strada, la scritta "Evo si!"ripetuta centinaia, migliaia di volte, intervallata da grandi manifesti inneggianti al Presidente Evo Morales e a quanto ha fatto per la Bolivia, fino a far identificare la sua immagine con quella del Paese.

Evo Morales, leader del Movimiento al Socialismo (MAS), è Presidente della Bolivia dal gennaio 2006 e sta espletando il suo terzo mandato consecutivo, per conseguire il quale ha già cambiato la Costituzione che prevedeva il Presidente fosse eleggibile non più di due volte.

Nel 2016 un referendum su un'ulteriore modifica della costituzione che gli avrebbe consentito un quarto mandato e forse la Presidenza a vita, ha bocciato questa possibilità con il 51% dei voti. Malgrado ciò , di recente il Tribunale Costituzionale lo ha autorizzato a ricandidarsi alle elezioni presidenziali per la quarta volta nel 2019.

Nato in una famiglia povera nel 1959, Morales è di origine indigena. Non si è mai laureato e ha lavorato a lungo come raccoglitore di coca, diventando in seguito il leader del sindacato dei cocaleros, cosa che gli ha spalancato le porte della politica portandolo fino alla Presidenza.

L'arrivo di Morales a Palazzo Quemado nel 2006 ha dato il via a una rivoluzione democratica che ha messo a soqquadro il Paese, travolgendo l'oligarchia bianca e filoamericana a favore della maggioranza di indios e meticci, i due terzi della popolazione.

Tra i primi provvedimenti dopo il suo insediamento, il neopresidente emanò un decreto che imponeva la nazionalizzazione di tutte le riserve di gas naturale: dopo aver ordinato all'esercito e ai tecnici della YPFB, la compagnia di stato, di occupare gli impianti energetici, concesse alle compagnie straniere un "periodo di transizione" di sei mesi per rinegoziare i contratti o venire espulse.

Lo scopo dichiarato era di usare la ricchezza costituita dagli idrocarburi per sostenere le politiche sociali: l'utile per lo Stato passò in breve da 300 a 1.600 milioni di dollari l'anno, ridistribuiti tra amministrazioni locali, università e tesoro.

Da allora però non sono state più messe in atto politiche di investimento adeguate per favorire le esplorazioni e lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas: oggi esiste la reale possibilità che la Bolivia non riesca a onorare i contratti di esportazione di gas con Brasile e Argentina.

Nel febbraio 2009 il salario minimo veniva portato da 440 a 667 bolivianos: tuttavia in Bolivia 6 lavoratori su 10 lavorano in nero, cosa che ha limitato fortemente l'impatto di questo provvedimento.

La gestione Morales ha triplicato la spesa pubblica, dedicata principalmente a finanziare programmi sociali e sussidi alla parte più povera della popolazione, mentre il PIL del paese è cresciuto di pari passo.

Queste politiche sociali hanno portato a risultati significativi: tra il 2006 e il 2011 i poveri sono passati dal 60 al 45% della popolazione. Il reddito medio delle famiglie meno abbienti ha mostrato significativi miglioramenti e le diseguaglianze nel paese sono diminuite.

Gli sforzi per migliorare il sistema educativo hanno prodotto la dichiarazione dell'UNESCO del 2008 di una Bolivia libera dall'analfabetismo.

Tutto oro quello che luce? Neanche per idea.

Il governo Morales viene accusato infatti di perseguire scelte populiste, con elargizioni di denaro pubblico ai meno abbienti, senza un reale progetto di rinnovamento basato su riforme strutturali.

Per esempio:

il bono Juancito Pinto, dedicato all'eroe bambino della Guerra del Pacifico nella seconda metà dell'Ottocento contro il Cile. Il bono è finalizzato a sostenere l'acquisto del materiale scolastico con 200 bolivares (equivalenti a 20 euro), dati ai genitori per ogni figlio che frequenta le scuole elementari.

il bono para las madres y los niños. Questo bono consiste in 50 bolivares da consegnare alle puerpere ogni volta si sottopongono a visite di controllo (fino a quattro), 120 boliviani se partoriscono in strutture mediche nazionali, 125 boliviani a ogni visita di controllo (una ogni due mesi) dei nati fino al secondo anno di vita.

A questo riguardo è da tenere ben presente che esiste una rete di ospedali pubblici ma non un servizio sanitario nazionale: vale a dire che i Boliviani sono costretti a pagarsi cure mediche e interventi chirurgici, anche in urgenza, con costi gravosi e non rapportabili al salario minimo. Ciò sta crudelmente a significare che in Bolivia ancora oggi, se non si è in grado di pagarsi le cure, semplicemente si muore.

I nostri amici di Anzaldo ci hanno raccontato di Ospedali pubblici dove funziona solo la burocrazia, di una classe medica poco preparata e dedita al lucro, di una giustizia corrotta, di un fiorente mercato della droga, di provvedimenti legislativi demagogici.

Nel 2017 Morales aveva dichiarato di voler obbligare gli imprenditori a corrispondere la 14ma mensilità se gli utili fossero stati corrispondenti all'aumento del PIL. Nel 2018, in vista delle elezioni il prossimo anno e smentendo quanto dichiarato in precedenza, ha obbligato gli imprenditori grandi e piccoli a corrispondere la 14ma in ogni caso, spargendo il panico.

Su tutto questo aleggia la questione cocaina: Morales afferma che masticare foglie di coca è stata una tradizione per più di mille anni fra le popolazioni indigene dell'America Latina, fra cui le popolazioni Aymara e Quechua, dalle quali egli stesso proviene, che le considerano sacre. Il suo relativo basso effetto narcotico consente ai poveri del paese di lavorare tutta la giornata, che può durare anche quindici o diciotto ore.

Tale affermazione è solo parzialmente vera. L'uso delle foglie di coca è certamente molto antico ma non era un bene di largo consumo, nemmeno in epoca Inca, quando questo era strettamente riservato alla teocrazia.

Nonostante le dichiarazioni pubbliche di lotta alla cocaina, la riduzione dei controlli sul commercio di foglie di coca e il parziale blocco ai programmi di eradicazione volontaria delle coltivazioni (che sono cresciute da un minimo storico di circa 15 000 ettari, nel 2000, agli attuali 30 000) stanno riportando in auge la produzione e il commercio illegale della droga.

Nelle foreste del Chapare si procede all'essiccamento e sminuzzamento delle foglie e alla fabbricazione della pasta base di cocaina. Questa viene poi trasferita nei laboratori di cristallizzazione in aree urbane, dove il trasporto delle sostanze chimiche usate per la sintesi della droga risulta agevole e senza controlli.

In ultima analisi il risultato più evidente conseguito da Morales sta nell'incremento delle entrate statali lecite e non: da diversi anni è in corso un vero e proprio boom dei prezzi delle materie prime esportate dalla Bolivia (petrolio e semi di soia legalmente, foglie di coca e cocaina illegalmente), responsabile di gran parte della crescita economica del Paese.

A fronte di questo si ha l'impressione di una mancanza totale di politiche di investimento e di riforme profonde.

Come il Venezuela ubriaco di petrolio, la Bolivia oggi importa troppo grazie all'opulenza del suo bilancio statale, ma produce troppo poco. Ci sono già preoccupanti segni di flessione nel mercato delle esportazioni e lo spettro della crisi del modello boliviano potrebbe essere dietro l'angolo.

Dino

















sabato 26 maggio 2018

Potosì e Sucre: due città, una storia.

Dopo l'incredibile esperienza del Salar lasciamo Uyuni diretti a Potosi'. La strada, bellissima, con un ottimo manto, si snoda tra curve e tornanti mostrando splendidi scenari montani nella declinazione del verde, del rosso, del marrone e del giallo che lasciano senza fiato.

Arriviamo a Potosi' al tramonto, passiamo l'arco di benvenuto alla città e cominciamo ad arrampicarci verso il centro storico. È uno shock: ci troviamo in breve prigionieri di un traffico caotico, in strade strette con poca possibilità di manovra, in uno smog soffocante, ma Franco fa un miracolo dei suoi e fermandosi a chiedere bloccando il traffico infinite volte, al secondo tentativo trova un buon albergo con garage dove finalmente sistemare le moto e infilarci sotto la doccia, stremati. 

Potosi' è una città mineraria per eccellenza che di miniera ancora vive: la sua risorsa fondamentale è il Cerro Rico, una grande montagna triangolare che occhieggia attraverso le strade a saliscendi, che è stata una delle più ricche miniere d'argento durante il periodo coloniale.

Narrano le leggende che quando gli Inca arrivarono a Potosi' rivolsero la loro attenzione alla grande montagna ma uno dei loro Dei impose loro di soprassedere perché le risorse in essa contenute erano state riservate a un altro popolo con un grande destino. Cortes arrivò 80 anni dopo e mise in opera lo sfruttamento intensivo delle ricche vene d'argento del Cerro Rico che rappresentarono l'80% della enorme produzione d'argento che prese la via della Spagna per alimentare i lussi della Corte.

I Potosini affermano che con tutto l'argento che nel corso dei secoli fu inviato in Spagna si sarebbe potuto edificare un ponte dalla loro città fino a Madrid. Ci pensarono poi i Gesuiti a convincere i nativi, sovrapponendo le immagini della Pacha Mama a quelle della vergine Maria creando una icona femminile rappresentata sempre con una veste triangolare che riecheggiava la forma del Cerro Rico, assurto a simbolo di ricchezza e prosperità.

Lo sfruttamento intensivo del Cerro Rico perdurò dai tempi di Cortés fino alla liberazione dell'Alto Perù dagli Spagnoli da parte di Simon Bolivar nei primi anni del 1800: l'80% della enorme produzione di argento veniva spedita in Spagna, il 18% era destinata a coniare le monete valide per tutto il vicereame di Spagna comprendente Ecuador, Colombia, Bolivia, Perù, Cile e Argentina e il 2% era di pertinenza degli orafi locali che creavano squisiti oggetti di argenteria.

Lo sfruttamento della miniera influenzò anche il mercato degli schiavi: un numero imprecisato di negri africani fu trasferito a Potosi' a morire di freddo e di stenti. Si calcola che durante tutto il periodo coloniale siano morte in miniera ed attività collegate almeno 900.000 persone tra schiavi e nativi.

L'argento trasformato in lingotti, veniva inviato via terra al porto di Antofagasta in Cile. Poi via nave arrivava a Panama dove in assenza del canale era trasferito via terra sugli approdi dell'oceano atlantico dove veniva di nuovo imbarcato alla volta della Spagna. 

Il centro storico è una bella testimonianza dello stile coloniale, ma la topografia della città, arroccata con le sue strade strette e ripide sulla cima di una montagna di fronte al Cerro Rico e il conseguente traffico infernale che ne deriva, non ne permette una compiuta fruibilità. Ripartiamo all'indomani mattina per una bella strada digradante che ci porterà dai 4100 metri dì altitudine di Potosi' ai 3000 di Sucre.

Sucre fu fondata con il nome di Ciudad de la Plata de la Nueva Toledo il 30 novembre 1538. Nel 1559 il Re di Spagna Filippo II istituì la Audencia de Charcas a La Plata, la massima corte giudiziaria dell'Alto Perù al cui presidente erano anche affidati poteri amministrativo ed esecutivo: la giurisdizione comprendeva i territori degli attuali Paraguay, sud-est del Perù, nord del Cile e Argentina e gran parte della Bolivia. Nel 1609 la città divenne Arcivescovato, nel 1624 venne fondata l'Universita dell'Alto Perù, la più antica del Sudamerica. 

La cittadina non è grande e il centro storico muy lindo, come dicono da queste parti, ordinato, elegante e vivibile. Troviamo alloggio in un bellissimo B&B a ridosso del centro dove ci fanno sistemare le moto nel loro elegante giardino interno, tra un ulivo e una palma centenari, tavoli da giardino e mobili antichi.

La piazza centrale è molto elegante, con la Cattedrale e un bellissimo giardino monumentale. Sucre è stata la prima capitale della Bolivia, il luogo dove avvenne la dichiarazione di indipendenza e la proclamazione della Repubblica nel 1825 con il nome di República de Bolivar, poi trasformato in Bolivia, in onore del Libertador e suo primo Presidente, il mitico Simon Bolivar. 

Simon Bolívar, Simón,
in ogni tempo vola
come una torcia la tua voce.
Come una torcia che va
indicando una rotta sicura
su questa terra ricoperta
di morti con dignità.

Simon Bolivar, Inti Illimani, 1973

Ci sono stati tre grandi pazzi nella storia:Gesù, Don Chisciotte e io'.

Simon Bolívar nacque a Caracas in Venezuela il 24 luglio 1783, e a nove anni era già orfano di entrambi i genitori. 

Sedicenne si trasferì in Spagna per completare gli studi e la' conobbe e sposò María Teresa Rodríguez che pochi anni dopo sarebbe morta di febbre gialla. Bolivar ritornò in Europa nel 1804 e rimase diverso tempo a Parigi, dove conobbe Napoleone che inizialmente lo affascinò ma dal quale poi prese le distanze accusandolo di aver tradito gli ideali della rivoluzione francese. 

Nel 1807 tornò in Venezuela dove un tentativo di insurrezione di Francisco Miranda era stato represso nel sangue. 

Nel frattempo in Europa il 5 maggio 1808, Napoleone incoronava suo fratello Giuseppe re di Spagna e delle colonie. La notizia giunse in Sudamerica, provocando tentativi di rivolta alla corona di Spagna a Rio della Plata, Charchas, La Paz e Quito, mentre si diffondevano a macchia d'olio gli ideali delle rivoluzioni francese e americana. 

Il malcontento nei confronti del governo spagnolo si trasformava in aperta rivolta: formata una Giunta di Governo nel 1810, il Venezuela si ritrovò ben presto sconvolto dalla Guerra civile: la situazione divenne ancor più tesa dopo la dichiarazione di indipendenza del 5 luglio 1811, che diede luogo a una lunga guerra che avrebbe visto Bolivar sempre in prima linea.

Presto assunse il comando del movimento per l'indipendenza affrontando battaglie che si protrassero senza sosta fino al 1825, portando alla liberazione di Colombia, Venezuela, Ecuador e Peru'. 

Un anno dopo l'Alto Perù dichiaro' la propria indipendenza nella città di Sucre e la nuova repubblica fu battezzata prima Repubblica Bolivar e successivamente Bolivia. 

Il sogno visionario del Libertador di costituire un grande stato Panamericano indipendente stava diventando realtà. 

Nasceva la Grande Colombia che comprendeva gli odierni stati di Venezuela, Colombia, Panama e Ecuador, di cui egli fu nominato Presidente, ma l'impegno più grande fu quello di tenerla unita a causa delle forti spinte centrifughe sostenute dalle strenue opposizioni interne.

Bolivar rimase aggrappato al suo sogno, ma non riuscì a gestire realtà ancora tanto diverse, perdendo progressivamente potere, credibilità e carisma.

Tentò allora di istituire una dittatura incentrata su se stesso, in quanto si riteneva, forse a ragione, la migliore guida per quelle nazioni neonate. Dopo essere scampato a un attentato, si dimise nel 1830, profondamente amareggiato e ammalato di tubercolosi.

La Gran Colombia si dissolse quasi subito; il Venezuela diede vita a un nuovo stato che bandi' El Libertador dalla sua stessa Patria, cui tanto della sua vita aveva dedicato.

Simon Bolivar morì in solitudine e in condizioni di assoluta povertà a Santa Marta, in Colombia, ospite di un gentiluomo spagnolo, il 17 dicembre del 1830, a soli 47 anni.

Il suo ospite offri' una delle sue camicie per coprire la salma poiché tra i pochi effetti personali dell'eroe non ce n'era una presentabile.

Scrisse nelle ultime pagine del suo diario: 'Il mio nome appartiene alla storia e la storia mi renderà giustizia'.

Oggi le sue ceneri riposano nel Pantheon Nazionale di Caracas e la sua figura è venerata in tutto il Sudamerica.

Sucre rimase capitale fino alla fine del XIX secolo quando ci fu una ennesima sanguinosa guerra civile con la Paz per il predominio. La guerra esito' in un accordo che dichiarava Sucre capitale costituzionale, dove aveva sede la corte suprema e La Paz capitale amministrativa, sede del Parlamento e del Governo.

Lasciamo con rimpianto l'aria leggera, l'atmosfera dolce piena di storia e di cultura e portiamo con noi l'immagine della giovane coppia che balla un tango solitario nella notte nella piazza principale incurante degli sguardi degli astanti, persi occhi negli occhi.

Dino











giovedì 24 maggio 2018

La ruta de la muerte

Questa è una strada che porta a Coroico, un piccolo centro a circa 60 km da La Paz. E' una strada sterrata di circa 50 km, tagliata sul fianco di una montagna strapiombante per oltre 1000 metri e che in alcuni tratti ha una larghezza di non più di 3 metri. E' come una lunghissima cengia che corre lungo tutto il fianco di questa verdissima valle quasi verticale che scende dai 4400 metri del passo Cumbre. Una sua foto fa da copertina alla nostra guida della Bolivia e devo dire che fa un certo effetto. Si è guadagnata il suo triste nome a causa dei numerosi incidenti occorsi negli anni passati, quando era l'unica via per raggiungere Coroico. E' facile pensare alle difficoltà di incrocio di due veicoli, anche camion, provenienti in senso opposto. La regola qui è di tenere la sinistra così il guidatore sul lato esterno può vedere esattamente dove mettere le ruote sul ciglio della strada. Ci sono parecchie croci lungo il percorso a testimonianza degli incidenti avvenuti. La strada e' poi bagnata in alcuni tratti da lame d'acqua che precipitano dall'alto e rendono il terreno scivoloso, nella stagione delle piogge credo che non sia affatto percorribile.

Oggi però la situazione è completamente diversa perché è stata costruita una strada asfaltata sull'altro versante della valle e quindi tutto il traffico da e per Coroico avviene su questa. La Ruta della Muerte mantiene però il suo sinistro fascino e attira soprattutto ciclisti che la percorrono in discesa e trovano alla fine del percorso un pulmino che li riporta indietro. Noi, incuriositi, intimoriti ma anche attratti dalla sfida abbiamo deciso di percorrerla con le moto. La strada si è rivelata non particolarmente impegnativa da un punto di vista tecnico anche se richiede attenzione soprattutto nei tratti bagnati. Ora ci sono poi numerosi guard rail a protezione delle zone di strada più esposte. Bisogna fare i conti con le decine e decine di ciclisti che la percorrono anche a buona velocità ma ci è sembrato che oggi la Ruta della Muerte non sia più tale o almeno così ci auguriamo. Resta però una strada unica in un posto selvaggio e bellissimo che assolutamente vale la pena percorrere. 

Quello che poi a me ha colpito particolarmente è stato il dislivello totale che abbiamo percorso in poche ore per effettuare il nostro giro; siamo infatti partiti dai 3400m di La Paz (alloggiavamo nella zona bene, mentre i quartieri più poveri sono a 4000m), abbiamo raggiunto il passo Cumbre a 4400 e siamo poi ridiscesi a circa 3000 per imboccare la famosa Ruta. Questa scende abbastanza dolcemente fino a 1800, qui un desvio ci ha permesso di scendere a 1200 m e raggiungere la nuova strada asfaltata che abbiamo utilizzato per il ritorno. Poi di nuovo su ai 4400 del passo, insomma 3200 metri di dislivello in discesa e poi in salita nell'arco di poche ore. Apparentemente uno stress notevole per il nostro corpo ma in realtà non ne abbiamo risentito affatto, le moto invece, che sono quelle che faticano veramente e ansimano e tossiscono in quota, sono state ben contente di poter finalmente respirare un po' di ossigeno in più quando siamo scesi in basso. Questa è stata infatti l'unica volta nei nostri 10 giorni in Bolivia, in cui ci siamo trovati al di sotto dei 3400m, quota dell'immenso altopiano che la unisce al Perù al Cile e all' Argentina. Insomma un vero mondo delle Terre Alte.

Claudio














mercoledì 23 maggio 2018

Pietro Gamba

Arriviamo ad Anzaldo percorrendo un Piedrado di 40 km, una lunga striscia di ciottoli tenuti insieme dalla sabbia, alternati a tratti di strada bianca nei segmenti ancora in costrizione.

Il paese è un incrociarsi di case basse pulite e dignitose raccolte attorno a una bella piazza con tanto di giardino e prefettura. La fondazione Pietro Gamba dista un paio di quadre e la troviamo facilmente, la casa è adiacente all'Ospedale e lui è lì che ci aspetta, ci fa entrare con le moto in giardino dove sono parcheggiate un'ambulanza e una Toyota 4x4.

Non sente nemmeno le nostre rimostranze sul fastidio che non vogliamo dargli e sulla opportunità di una invasione della sua casa da parte nostra, ma ci assegna due stanze dove poterci sistemare che sono già state prepariate con lenzuola,asciugamani, etc.

Si scusa ma la moglie Margherita è in viaggio con la più piccola delle 4 figlie ed essendo lei l'anima della casa, è in grado di garantirci solo un piatto di spaghetti.

Nemmeno il tempo di lasciare le borse e ci conduce in una casa vicina dove si festeggiano i 92 anni del sig Ignatio Cacheco, un notabile del Paese, ex insegnante e uomo di cultura molto rispettato, che ha chiesto espressamente la sua presenza.

Entriamo in un piccolo cortile dove sono apparecchiati due tavoli, in un angolo la carne cuoce su braci fumanti, in un altro le donne preparano insalata e patate sotto la cenere.

L'accoglienza è festosa, lui ci presenta e tutti ci sorridono, ci stringono le mani, ci invitano a sederci, a bere una cerveza.

Una signora ci fa alzare di nuovo e ci conduce sorridente alla porta dove ci offrono del mais fermentato da bere, che deve rappresentare una specie di cerimonia di benvenuto in casa. Poi Pietro ci riporta in cortile e ci invita a presentarci: lui farà da traduttore in spagnolo. Tutti gli astanti poi fanno lo stesso, soltanto gli uomini perché le donne non sono sedute a tavola, e così conosciamo gli esponenti di tre generazioni della famiglia, compresi quattro ragazzi con le facce pulite e le espressioni intelligenti.

Siamo entrati con l'intenzione di fare un breve saluto e di andar via, ma è impossibile: in breve ci troviamo con un bicchiere in mano e la carne nel piatto. E mentre mangiamo raccontiamo in Italo spagnolo, aiutati e tradotti da Pietro, le nostre storie, chi siamo, cosa facciamo, il viaggio, l'Italia...e poi la situazione politica in Bolivia, la discussa figura del Presidente Morales, alla guida del Paese dal 2006 in lotta per ottenere un ulteriore mandato, le sue scelte considerate demagogiche, il bisogno di cambiamento espresso da tutte le componenti di quel piccolo spaccato sociale presente nel cortile.

Salutiamo tutti, rinnoviamo gli auguri al festeggiato e andiamo via: di fronte alla casa dalla quale siamo usciti, evidentemente di estrazione elevata, una cantina dalla quale arriva la musica di una fisarmonica: Pietro ci invita ad entrare e ci ritroviamo in un ambiente spoglio, con delle panche sulle pareti, dove uomini e donne evidentemente di umile condizione, lo festeggiano come uno dei loro, ci invitano ad entrare, ci offrono ancora mais fermentato e cantano una canzone in nostro onore.

Un breve giro in ospedale, mi fa vedere una ragazza di 20 anni appena operata per una gravidanza extrauterina, " Ho dovuto chiamare un chirurgo da Cochabamba, non sapevo a che ora tu saresti arrivato, altrimenti l'avremmo operata insieme!", mi dice come fosse la cosa più normale del mondo.

Finalmente torniamo a casa, ci prepara un buon caffè e ci racconta la sua storia.

Pietro nasce a Sezzano, in provincia di Bergamo, è un perito meccanico ed è di estrazione profondamente cattolica. Alla fine degli anni '60, in quel periodo pervaso dagli ideali di pacifismo e antimilitarismo, rifiuta il servizio militare e accetta il servizio civile: tre anni di volontariato in Italia e tre anni in Bolivia ad occuparsi di infanzia nelle comunità dei campesinos, dove prende contatto con quella dura realtà fatta di lavoro in altura, stenti, freddo tutto l'anno, senza la minima assistenza sanitaria.

La sanità in Bolivia è un capitolo nero con il quale ognuno spera di non avere mai nulla a che fare. Costosissima (perché non è garantita dallo Stato), inefficiente, a tratti imbarazzante. Sono numerosissimi i racconti che avvalorano questa tesi e la cosa più drammatica è che i boliviani sembrano essersi rassegnati a questa assurda situazione.

È dello scorso gennaio un articolo apparso sulla versione online de La Razón che denuncia, senza mezzi termini, le inefficienze del sistema sanitario boliviano....

L'autrice dell'articolo commenta indignata: "Davanti a questa situazione uno si domanda: e tutta quella gente che non ha a disposizione risorse economiche deve morire?". La risposta è sì, in Bolivia le persone che non possono permettersi le cure vengono lasciate morire. È triste, è ingiusto, è inumano ma è la realtà dei fatti alla quale le persone si sono tristemente rassegnate. Il trattamento ospedaliero – anche quello pubblico – ha costi spropositati in relazione allo stipendio medio boliviano che attualmente si aggira attorno ai 290 dollari. Una situazione insostenibile per un Paese che è ancora uno dei più poveri dell'America Latina: secondo dati del 2016 il 15,8% della popolazione vive con meno di 3,10 dollari al giorno; il 9,1% con meno di 1,90 dollari....

Storie drammatiche che sono all'ordine del giorno ma alle quali si fatica a far l'abitudine. Famiglie costrette a lasciar morire i propri figli perché il costo richiesto per le cure è troppo alto; o, peggio, famiglie che, dopo aver racimolato il giusto quantitativo di denaro, vedono morire il proprio figlio per una diagnosi sbagliata o per grossolani errori da parte del personale sanitario. Sì perché il sistema sanitario boliviano non solo è costosissimo, ma è anche tremendamente inadeguato. Sarà un caso che lo stesso presidente Evo Morales Ayma nel mese di maggio andò fino a Cuba per sottoporsi ad un'operazione alla gola? O che il ministro dell'economia si rivolse direttamente a dottori brasiliani per farsi curare da una infermità ancora non dichiarata? Anche qui sono numerosissimi i casi che smascherano l'inadeguatezza dei dottori e delle strutture ospedaliere boliviane...

Qualche dato a suffragare questa non invidiabile situazione: la Bolivia risulta essere – in quanto a strutture e a fondi investiti dallo Stato – uno degli ultimi Paesi del Sud America sotto la voce sanità. Malgrado i recenti investimenti del governo Morales abbiano portato alla costruzione di 2700 consultori e 47 ospedali, secondo i dati del Banco Mundial lo stato boliviano è quello che investe meno risorse nella salute dei suoi cittadini rispetto a tutti gli altri paesi sud americani; è infatti ultimo con un totale di circa 209 dollari per persona – Cuba ne investe 817 e l'Italia 3.258 per intenderci. Il periodico Pagina Siete in un recente articolo denuncia anche una scarsa capacità di posti letto: si parla di 12.000 unità per una popolazione stimata di 11 milioni di persone (1,1 letto per mille abitanti).

Complice questa sfiducia generale nei confronti delle strutture ospedaliere e della scienza farmacologica in senso lato, molti boliviani legati alle tradizioni ancestrali continuano a rivolgersi con fede e devozione agli Yatiri o curanderos, quelli che dalle nostre parti chiameremmo sciamani. Il termine "yatiri" deriva dall'aymara e si può tradurre in "colui-che-conosce"; sono persone che vivono normalmente la vita comunitaria, con un lavoro e una famiglia. Hanno però la capacità di entrare in contatto con los espíritus del mas allá ("gli spiriti dell'aldilà), di leggere il futuro e, naturalmente, di guarire.
 
Tratto da: Dottori v/s Sciamani. La sanità in Bolivia, storie e leggende.

Davide Cavalleri, santalessandro.org, 3 agosto 2017

Durante un'epidemia di morbillo che vide molte piccole vittime e che neppure i curanderos poterono risolvere, i contadini si rivolsero a lui come ultima risorsa.

Davanti a quel dramma e alla propria inadeguatezza, Pietro decide di tornare in Italia e di iscriversi, all'età di 26 anni, al Corso di laurea in Medicina, a Padova, che termina nel 1984.

Dopo un breve periodo di tirocinio in Svizzera, nel 1985 torna in Bolivia e sceglie Anzaldo, un piccolo centro a 3000 metri di altitudine dove comincia a esercitare.

Il paese è l'epicentro di una regione tra le più povere e depresse della Bolivia, collegato a Cochabamba da una strada in pessime condizioni, sprovvisto di strutture sanitarie, privo d'elettricità e d'acqua potabile.

Pietro mette in pratica la sua precedente esperienza in comunità: riunisce periodicamente gli abitanti di Anzaldo e li convince a fondare il primo nucleo dell'Ospedale con una raccolta di fondi.

Nel 1986 da' inizio ai lavori, edificando una struttura di primo soccorso per la popolazione della zona, 12.000 persone distribuite su un'area di 1.000 chilometri quadrati.

Riesce ad ottenere un finanziamento dal Governo Italiano su un progetto per portare la corrente elettrica ad Anzaldo. Fatta una stima dei costi va a comprare il materiale in Brasile, a prezzi molto più bassi, riempie un treno che viene fermato alla frontiera; dopo una serrata trattativa con un Ministro, il treno viene sbloccato e in breve vengono realizzati sia la linea elettrica che un vero piccolo Ospedale.

Nel 1991 sposa Margarita Torrez, una dottoressa in Biochimica d'origine boliviana, che dà tutt'oggi un importante contributo al lavoro dell'Ospedale e che gli ha dato 4 figlie.

Nello stesso tempo costruisce una sala operatoria attrezzata e si inaugura il nuovo acquedotto per aumentare e rendere potabile l'acqua nel paese.

Nel 1997, grazie anche all'appoggio di alcuni sostenitori svizzeri, viene realizzato un Centro diagnostico polifunzionale.

La carenza più grave dell'inesistente servizio sanitario pubblico boliviano è la chirurgia: Pietro impara a somministrare l'anestesia generale e periferica e mette in piedi un vero servizio di Chirurgia d'Urgenza. Alla Fondazione Pietro Gamba si rivolgono oggi gli abitanti del circondario ma anche pazienti che vengono da regioni più lontane, che non si fidano delle prestazioni degli ospedali governativi, o che non hanno abbastanza denaro da poterne pagare le prestazioni.

Oggi l'Ospedale della Fondazione Pietro Gamba è una realtà riconosciuta nel panorama sanitario boliviano, grazie all'impegno a 360 gradi che Pietro e i suoi collaboratori continuano a profondervi quotidianamente.

Dino





















lunedì 21 maggio 2018

Bolivia!

Entrare in Bolivia dall'Argentina è come passare una frontiera spazio temporale, ci si ritrova proiettati immediatamente in un mondo completamente diverso.

Le due città, La Quiaca e Villazon, separate dai pochi metri della Stazione della Dogana, sono quanto di più diverso si possa immaginare: sobria e grigia la prima, superata la sbarra ci si ritrova in un mondo colorato di piccole botteghe che propongono tessuti, ponchos, artigianato, copricapi, souvenirs e paccottiglia di ogni genere dove lo sguardo rimane impressionato dai toni del rosso che domina su una miriade di altri colori. L'atmosfera ricorda i vicoli di Spaccanapoli, permeata di una umanità dedita al commercio al minuto che vive seduta sul gradino della piccola bottega. La differenza è che nessuno ti propone nulla o ti tira per la manica, ti guardano, loro sono lì ma non ti chiedono nulla, sono lì fieri del loro stato, della loro mercanzia, ma nessuno fa un gesto di incoraggiamento o ti chiede di comprare.

È un popolo duro che vive vite dure, lo impariamo presto. Man mano che ci inoltriamo nel Paese con le nostre motociclette, ci rendiamo conto di cosa significa la vita in altura, almeno per noi: l'aria è pulita e rarefatta, si viaggia costantemente dai 3500 ai 4500 metri, con punte a 4800/4900, il fiato corto è una costante e per l'acclimatamento ci vogliono giorni, settimane. Anche le moto ne risentono nonostante la carburazione sia stata regolata allo scopo: i motori fanno fatica, si "affogano" , non riescono a prendere giri a medi regimi costringendoti a una guida più nervosa, fatta di marce più basse per riuscire a prendere potenza.

I panorami sono maestosi, l'occhio si perde in spazi infiniti nei quali si alternano montagne coperte di muschio e ampie vallate deserte. I fiumi sono in secca, non incontriamo nessun corso carico d'acqua: ci spiegheranno che per la maggior parte sono riforniti dalle piogge stagionali, ma a me viene in mente Quantum of Solace, il film di 007 nel quale un imprenditore senza scrupoli legato a una organizzazione terroristica cerca di impossessarsi delle riserve d'acqua della Bolivia. 

I paesini che attraversiamo esprimono una povertà desolante e condizioni igieniche quantomeno critiche: le poche strade che collegano i grandi centri sono in buona parte asfaltate, segno di un grande sforzo che il Paese sta compiendo per migliorare i collegamenti e incoraggiare il turismo, ma i centri più piccoli sono costituiti da case ammassate alla rinfusa intorno a strade bianche che diventeranno fiumi di fango durante la stagione delle piogge, con fili elettrici che pendono ovunque in mancanza di qualunque norma di sicurezza, per non parlare dello stato dei bagni pubblici. Ciononostante ci si trova davanti a un popolo fiero e consapevole della sua unicità: le donne per lo più piccole e robuste, scure di carnagione, vestono gli abiti tradizionali a colori vivaci con copricapi di varie fogge, ma non hanno alcun timore a guardarti con i seri occhi scuri e a negarti la foto, che potrebbe rubar loro l'anima. 

I Boliviani sono un popolo chiuso, che ha avuto pochi contatti con l'esterno, un po' come i Cileni, che però hanno il mare che rappresenta una grande via di comunicazione e al contrario degli Argentini, che costituiscono un melting pot fatto di varie razze dovuto alle forti ondate migratorie del secolo scorso. 

I Boliviani non amano raccontarsi, lasciano che parlino per loro la bellezza e il fascino del loro Paese.

Dino